GRUPPI DI RESISTENZA PER FERMARE LA DERIVA POLITICA
OCCORRONO GRUPPI DI RESISTENZA PER FERMARE LA DERIVA POLITICA E SOCIALE E PER RILANCIARE I PRINCIPI E I VALORI DELLA COSTITUZIONE E DELLA NOSTRA DEMOCRAZIA
Le scelte e le decisioni del Governo Renzi vanno delineando e chiarendo i contorni di un orientamento politico-culturale e di una pratica politica sempre più diffusa, con conseguenze di ordine sociale e istituzionale che costituiscono motivo di preoccupazione e amarezza per coloro che si riconoscono in quel progetto di convivenza civile disegnato dalla Costituzione repubblicana del ’48.
Le politiche sociali, in materia economica e del lavoro, annunciate e in parte avviate dal Governo, sostenute dai centri finanziari e dai potentati economici, veicolate e difese, pur con qualche diversità di accenti, da una buona parte della stampa nazionale, hanno lo scopo di liberare il mercato e le relazioni sociali da regole e vincoli posti da una legislazione che, soprattutto negli anni ’70 del secolo scorso, ha cercato di tradurre in avanzate normative la indicazione della funzione sociale della proprietà privata e della iniziativa economica privata, nonché degli inderogabili doveri di solidarietà sociale sanciti dalla Costituzione, alla luce di quella stella polare del nostro Ordinamento che è l’art. 3 della Costituzione, il quale sancisce la pari dignità sociale e l’uguaglianza dei cittadini, e fa carico ai poteri pubblici di rimuovere gli ostacoli che la impediscono e mortificano.
Si colloca in tale contesto l’erosione di alcuni diritti sociali e il progetto di cancellazione dei diritti del lavoro riconosciuti dallo “Statuto dei lavoratori” del 1970, punto di arrivo della maturazione di una coscienza collettiva promossa dall’azione del movimento dei lavoratori , interpretata dalle forze politiche progressiste e tradotta dal Parlamento in una legge che costituisce uno dei punti più alti della civiltà giuridica e della cultura civile.
Le motivazioni presentate e diffuse perché tale “Statuto”, e in particolare l’art. 18, sia cancellato sono pretestuose o non accompagnate da alcuna verifica attraverso fatti. Viene propinato infatti che la difesa dell’art. 18 ha un sapore ideologico, mentre si tratta, come tanti lavoratori dipendenti sanno, della difesa della dignità reale della loro persona, della vita loro e della loro famiglia; viene prospettato poi l’ampliamento progressivo della domanda di lavoro in cambio della libertà di licenziare da parte del datore di lavoro, ignorando persino pronunciamenti pubblici di qualificati imprenditori che testimoniano la falsità di tale assunto ; viene infine ricordato l’ovvio interesse del datore di lavoro a non licenziare il dipendente spesso professionalizzato, non tenendo presente la storica situazione di debolezza del lavoratore nei confronti del datore di lavoro.
E così si propone di sostituire la dignità del lavoro concretamente difesa dall’art, 18 con contratti a tempo determinato che nell’arco di un triennio possono essere temporalmente e ampiamente parcellizzati, e con contratti a tempo indeterminato a tutele crescenti. Con riferimento ai primi il licenziamento è possibile in qualsiasi momento data la brevissima durata del contratto stesso; con riferimento ai secondi da una parte il licenziamento sarà sempre facilmente possibile una volta abrogato l’art. 18, dall’altra, a proposito di tutele, non sembrano esisterne in partenza, e si ignora quali siano, e di quale entità, in futuro.
Il processo di precarizzazione del lavoro scorre ormai da un paio di decenni, e le decisioni in corso vorrebbero consacrarlo come un dato definitivo e necessario di una “nuova società” e di un “nuovo ordine sociale” dominato da gerarchie consolidate e da luoghi anonimi nei quali deve muoversi un individuo affidato esclusivamente alla sua capacità di “farsi spazio” e “farsi strada”.
All’impoverimento economico e sociale derivante dalla disoccupazione o dal lavoro precario e senza diritti corrisponde sul piano politico e istituzionale un processo di rarefazione della democrazia e della partecipazione popolare nella determinazione della volontà politica del Paese.
Se con la cancellazione dello Statuto dei lavoratori la Costituzione e la democrazia sono espulse dai luoghi di lavoro deve negli anni ’70 erano entrate, con le riforme elettorali e istituzionali già operanti o progettate e avviate la democrazia viene largamente estromessa dalle Istituzioni.
Come è già avvenuto altre volte nella storia del nostro Paese un ceto elitario che oggi occupa i settori nevralgici della produzione materiale e immateriale, delle nuove reti telematiche, del mondo bancario-finanziario e di quello politico, accogliendo e nello stesso tempo alimentando l’umore antipolitico diffuso, ha ispirato e promosso decisioni politico-legislative di concentrazione del potere cambiando di fatto una Costituzione fondata sulla divisione e diffusione del potere.
Il Parlamento, l’unica Istituzione centrale che deve rappresentare tutto il Paese, viene eletto con una procedura che non permette ai cittadini di scegliere i candidati né a milioni di essi di essere rappresentati, e nello stesso tempo consente che una minoranza nel Paese, anche esigua, diventi consistente maggioranza politico-parlamentare, né si intravedono nuovi progetti di legge capaci di cambiare in modo significativo nella direzione opposta A tale procedura; la riforma del Senato, l’istituzione che forse più di tutte nell’Occidente è carica di storica dignità e prestigio, tende a ridurre tale Camera a un mero orpello o ad un’appendice irrilevante nell’equilibrio dei “pesi e contrappesi” dei poteri dello Stato democratico di diritto; le Province continuano ad essere luoghi di governo dei territori attraverso organi istituzionali che non rappresentano la volontà dei cittadini, ma solo un ristrettissimo ceto politico locale che non deve rendere conto a nessuno delle sue decisioni; le Istituzioni comunali sono state depotenziate proprio nell’organo fondamentale della rappresentanza che è il Consiglio comunale i cui componenti sono stati talmente ridotti di numero da relegare alla marginalità politica fasce più o meno ampie di cittadini.
A ciò si aggiunge una nuova prassi politico-istituzionale inaugurata dall’ex Presidente Berlusconi che ha fatto breccia anche nel costume consolidato delle forze politiche del centro-sinistra, tanto che il Presidente Renzi è nello stesso tempo Capo del Governo e capo del partito che sostiene il governo.
Il fatto è che alla democrazia dei partiti, delle varie associazioni politiche e dei corpi intermedi portatori di vitalità e di interessi sociali diffusi si vuole sostituire una democrazia elitario-autoritaria nella quale il Governo e in particolare il suo Capo parla direttamente al popolo o ai cittadini, rifiutando formalmente il confronto con le parti sociali e con i partiti, sempre più depotenziati e addomesticati da coloro che li guidano.
Davanti a una deriva di tali dimensioni invitiamo le Associazioni, i gruppi, i cittadini che si riconoscono e vogliono riprendersi la Costituzione a costituirsi o costituire gruppi di resistenza alla involuzione autoritaria, e di rilancio dei principi e dei contenuti programmatici della nostra Carta costituzionale repubblicana, la quale contiene tutti i riferimenti fondamentali per ispirare e promuovere un’altra via di uscita dalla particolarissima crisi di fiducia in cui è caduto il Paese, soprattutto nelle fasce sempre più ampie di ceti poveri e marginali.
Invitiamo nello stesso tempo a dare un segnale in tale direzione partecipando, oltre alla manifestazione romana indetta dalla CGIL appena tenuta lo scorso 25 ottobre, a ogni iniziativa a difesa del lavoro e dei diritti, e ad utilizzare occasioni e luoghi per diffondere e far sentire un’”altra voce”, popolare, democratica e progressista, dell’Italia repubblicana.