Le regole e le catene: gli avvocati al tempo del Covid-19

Nota dell’avv. Orazio Vesco

Le regole e le catene: gli avvocati al tempo del Covid-19.
Chiedo ospitalità a queste cortesi testate On Line -che ringrazio sentitamente-, con l’unico intento di rendere partecipi i più del disagio sociale degli avvocati in questo drammatico momento.


Va detto subito che -personalmente- appartengo a quella categoria di cittadini che si è messa in permanenza domiciliare volontaria in doveroso rispetto delle raccomandazioni e delle regole dettate dalle Autorità politiche.
La mia salute, quella dei miei familiari e di tutti è certamente più preziosa di ogni altra rivendicazione settoriale.
Ma tanto non può impedire a nessuno, e nemmeno a noi avvocati che vivono nella società e che, per mestiere, sanno anche leggere tra le righe, di avere loro opinione e di trasmetterla alla comunità professionale alla quale appartengono e di renderla, se possibile, ostensibile anche alle altre categorie sociali.
Ed allora, appartengo a quella categoria di “lavoratori” dimenticata senza appello dal cosi detto decreto Cura Italia.
È lecito così, almeno, domandarsi perché, quando illustri colleghi assurgono a ruoli di potere politico, si dimentichino da quale contesto provengano?
Io mi auguro che sia ancora lecito.
Appartengo, ancora, a quella categoria professionale rispetto alla quale la massima espressione della previdenza forense -il Presidente della Cassa di Previdenza e di Assistenza Forense- ci ha detto, in una garbata ed accorata lettera, che la Cassa, appunto, non è lo Stato e non può così aiutare tutti i professionisti, che ci ricorda essere oggi nel numero di 245 mila circa.
E appartengo ancora a quella categoria nella quale si annoverano valenti e noti esponenti locali che pensano che non si possa chiedere alla Cassa Forense di annullare i pagamenti dei contributi minimi dell’anno 2020, perché questo sarebbe a detrimento della perdita dell’anzianità contributiva a fini pensionistici, come se a un giovane avvocato appena affacciatosi alla professione forense possa interessare, con una lungimiranza a plurimi lustri, il domani anziché l’oggi e come se le spese di oggi dello studio le si possano pagare con la pensione del 2050 e oltre.
Ma appartengo anche a quella categoria professionale la cui Cassa Forense -dati di bilancio 2018, ultimo disponibile, liberamente consultabili dal sito relativo- ha un patrimonio netto di oltre 11 miliardi di euro, che nel solo anno 2018 ha maturato oltre 74 milioni di euro di interessi dal solo investimento in Titoli di Stato -a proposito di Stato, appunto e a proposito di obblighi di legge, tutti sottoposti al vaglio dei Ministeri vigilanti-, che nel solo anno 2018 -22 marzo 2018- ha acquistato alla modica cifra di un milione e ottocentomila euro più accessori -euro più o euro meno- due unità immobiliari in Roma al LungoTevere dei Mellini n. 44, immagino superando anche qui, positivamente, all’evidenza, l’obbligatorio vaglio dei Ministeri vigilanti, e che ha una liquidità di oltre 780 milioni di euro.
Tralascio, volutamente, i costi appostati a bilancio per i meritati emolumenti e per le spese di rappresentanza degli egregi delegati della Cassa, perché questo sarebbe contrario allo spirito costruttivo di queste mie osservazioni.
E appartengo, ancora, a quella categoria professionale rispetto alla quale numerosi soggetti che rappresentano Organi istituzionali o libere associazioni di professionisti hanno chiesto, a vario titolo, alle massime Autorità Giudiziarie, anche locali, di farsi promotrici di interventi sui Magistrati affinché provvedano alla liquidazione di vari compensi spettanti ad avvocati- su tutti, quelli del così detto gratuito patrocinio- con la massima sollecitudine, come se la regola -i tempi per la liquidazione dei compensi sono contingentati variamente dalla legge- debba diventare oggi, in momenti come questi, l’eccezione e come se un diritto maturato avesse necessità di una cortese istanza di sollecito. Dimenticando finanche che tra la liquidazione del Giudice ed il pagamento effettivo intercorre un tempo indefinibile ed incontrollabile da noi avvocati che varia di contingenza a contingenza.
Ma appartengo, ancora, a quella categoria che, piuttosto che guardare alla liquidazione dei “nuovi compensi”, non cerca di capire -e qui si, di sollecitare con forza- perché i compensi già liquidati e fatturati non siano stati ancora bonificati e perché nessuno si è preoccupato di far inserire questa “vocina” -pagamento immediato, anche fuori capitolo di bilancio- nel decreto Cura Italia.
E, infine, appartengo a quella categoria di misericordiosi in attesa di grazia che pensano ancora che le legittime aspettative della categoria possano essere tutelate solo per via Istituzionale, come se l’iniziativa, la protesta e la rivendicazione che provengano dal basso -ossia dalla comunità degli iscritti che quelle Istituzioni in una libera competizione elettorale ha votato- e financo anche dal singolo iscritto, magari non moroso, sia quasi disdicevole.
Il nostro -è normale che sia così, e sarebbe paradossale se fosse diverso da così- è un mondo fatto di regole per definizione.
Ma quando la regola diventa catena, soffoca invece che consentire la crescita o anche la sola sopravvivenza di colui che ne è sottoposto.
In una situazione di emergenza-chi la definisce una guerra contro un mostro invisibile non può certamente essere tacciato di catastrofismo-, insomma, la categoria degli avvocati deve trovare le risorse in se stessa e non cercare aiuto qua e la, se di quelle risorse già dispone.
Anche a costo di accantonare e di sacrificare qualche regola per qualche tempo.
Se poi quell’aiuto dall’esterno arrivasse, benvenuto che sia.
È tempo di guerra e in guerra si applicano altre regole. Non si può trattare il momento con gli strumenti ordinari.
Avrei tante altre cose da dire, ma non voglio approfittare dell’ospitalità concessami, se non ricordare che senza avvocati non ci sarebbero neanche più le Istituzioni che li rappresentano.
Ripensate, ripensiamoci tutti, a quelle regole, allora, e fatelo e facciamolo oggi, non domani.
Domani è tardi, anche per la stessa sopravvivenza di quelle Istituzioni.
Non vado oltre, dunque.
Del resto, nella mia personalissima condizione attuale -diversa almeno in parte da quella del resto della mia comunità di appartenenza- di iscritto, silente e rispettoso delle decisioni che mi riguardano personalmente, non sarebbe neppure opportuno che io aggiungessi altro.
Andrà tutto bene. Vi ringrazio.

Orazio Vesco.


Gen.le Lettore.

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