Oltre un anno e decine di migliaia di morti dopo, possiamo dire che, no, non è andato tutto bene e che, men che meno, ne stiamo uscendo migliori.
I segnali per una catastrofe, sanitaria ma anche sociale ed economica, erano tutti sotto i nostri occhi, in realtà, ma ci sono alcuni indizi che meritano un approfondimento di analisi per capire a pieno a che punto della notte ci troviamo come comunità, intesa come gruppo di persone che fa delle relazioni interpersonali e del mutuo soccorso uno strumento di progresso: c’eravamo tutti, a parte qualche stolto annebbiato dai fantasmi di un passato che dobbiamo tenere lontano e costretto dai legacci di ideologie imperniate sull’egoismo e sull’individualismo, a salutare con gli occhi madidi di emozione quel plotone di 53 uomini e donne in camice bianco che stringevano tra le mani la bandiera di Cuba prima di calarsi nel nostro inferno, quello dell’Italia della prima ondata, dei convogli blindati che incedono gravi per le vie di Bergamo.
Era il 21 marzo 2020, sembra una vita fa. I medici della brigata Henri Reeve furono mandati dal governo cubano a dare una mano, coi fatti, non con le parole: da allora, i sanitari cubani hanno supportato decine di nazioni, non tirandosi mai indietro e non guardando mai all’interesse politico o al proprio ritorno nel fare la cosa giusta. Eppure, i cubani avrebbero gli argomenti per motivare un eventuale “gran rifiuto”: oltre 60 anni di embargo, il “bloqueo” come si dice a L’Avana, non possono non lasciare il segno nella popolazione ma, nonostante le decisioni dei potenti del mondo che sono restati insensibili di fronte ai disastri umanitari provocati dalle proprie disposizioni, i camici bianchi provenienti dall’isola caraibica hanno risposto presente, senza esitazioni.
Chi si aspettava un segno di distensione, un’apertura nei confronti di un popolo tanto fiero quanto provato dalle restrizioni, un cenno di gratitudine per l’aiuto ricevuto nelle fasi più terribili dell’anno più terribile che abbiamo vissuto a memoria d’uomo, rimarrà deluso, ancora una volta. La Storia, diceva il filosofo Gianbattista Vico, è fatta di corsi e ricorsi ma il corso della storia cubana sembra non avere mai fine, come dimostra il voto dell’Italia contro la mozione presentata il 23 marzo scorso al Consiglio per i Diritti umani dell’Onu sulle ripercussioni negative delle sanzioni economiche applicate da alcuni Paesi contro altri.
A un anno dai lacrimoni coi quali accoglievamo i 53 eroi cubani, voltiamo per l’ennesima volta le spalle a un intero popolo che da più di 60 anni convive con misure economiche tanto vessatorie quanto ingiustificate. Le norme del bloqueo non colpiscono i vertici politici e militari di uno Stato ma ricadono per intero sulle fasce più fragili della popolazione, scavando anno dopo anno un solco sempre più profondo nel tessuto sociale ed economico del Paese: è questa la nostra idea del “ne usciremo migliori”? Siamo migliori di questo: siamo capaci di vedere la sofferenza negli occhi dell’altro, così come i medici cubani hanno visto la sofferenza nei nostri, un anno fa.
Prendere il voto su Cuba all’Onu come rappresentazione dell’egoismo che sta fagocitando il mondo occidentale non significa voler riconoscere un “contentino” al governo de L’Avana per l’aiuto fornito un anno fa ma vuole essere una crepa da allargare per far crollare il muro di indifferenza eretto in più di 60 anni che impedisce al popolo cubano di poter vivere e prosperare. Finché non capiremo che le vere vittime delle restrizioni stanno per le strade e non nei palazzi del potere non potremo dire che “andrà tutto bene” perché finché l’ingiustizia sociale non sarà estirpata dalle stanze dei bottoni nessuno potrà dirsi innocente o “migliore”.
Ora e sempre, No bloqueo!
Il Segretario Generale Antonio Macchia